Debora Antonello (Cittadella, 1967), vive in una chiesa romanica nel Chianti, Toscana, trasformata in studio d’arte. E’ cresciuta con il torchio calcografico del padre e la passione per Venezia, dove ha frequentato la Scuola Internazionale di Grafica e l’Atelier Aperto, sotto la guida di Nicola Sene..
Le sue opere attraversano la terra per proiettarsi nella spiritualità, anche grazie all’impegno artistico svolto nelle carceri Due Palazzi e Regina Coeli, e con Libera – associazione contro le mafie. Insegna tecniche sperimentali pittoriche all’Accademia Aperta di Cittadella.
Ha esposto in numerose mostre personali in Italia e all’estero, nutrendo un legame continuativo con il Giappone.
Ci sono i vigneti e gli ulivi, ci mancherebbe. Ma il Chianti riserva anche diversi angoli più selvaggi, in cui il bosco prende il sopravvento e pare nascondere le tracce dell’uomo tra querce, castagni, lecci e naturalmente pini marittimi. In una di queste macchie di foresta è venuta a ritirarsi Debora Antonello, artista veneta trapiantata in Toscana. Il suo lavoro parla tanti linguaggi, usa tecniche differenti e svariati procedimenti, ma il cuore dell’indagine rimane lo stesso: il senso, il sacro, la vita. Una ricerca umana prima ancora che artistica, che nel segno grafico trova solo la sua espressione più evidente. È proprio questa ricerca che l’ha portata ad allontanarsi dai luoghi in cui è cresciuta (“rotonde e capannoni”) per spostarsi a Montefioralle prima e a Castellina in Chianti poi, dove ha trovato una dimensione particolarmente adatta a stimolare le sue narrazioni visive.
“Volevo lavorare lontano dal conosciuto”, spiega l’artista, che ha scelto di isolarsi quanto più possibile per concentrarsi su ciò che vuole esprimere. “Per me l’arte è poesia, riflessione, ricerca. Le cose facili e ripetitive non mi interessano”, aggiunge. Da qui la decisione di sistemarsi in una zona isolata del Chianti, circondata da un mare di alberi, per conservare quanto più possibile la propria libertà estetica e autenticità. Una strada non semplice, che l’ha portata a fare anni di gavetta, di molte esposizioni personali, di lavoro estenuante, fino alla svolta del Giappone, dove il suo lavoro è molto apprezzato e con cui mantiene un rapporto costante di collaborazione. “Lì non ti chiedono cosa rappresenta, osservano e seguono l’emozione”, spiega. Un mondo differente in cui la sua esperienza grafica, che si alterna e confluisce anche nelle opere pittoriche, ha particolare fortuna. Sarà per la grande capacità di sintesi delle sue immagini, per la poesia che esprimono, per la sacralità che emerge a ogni gesto. Un tratto quasi zen, il suo, in cui la linea è segno essenziale che racchiude un mondo di significati.
“Rappresentare l’uomo mi imbarazza, dopo Caravaggio mi sembra senza senso” ride. “Preferisco raccontare il paesaggio, esterno e interno, e lasciare la presenza a livello informale”. Se i dipinti convogliano la sua filosofia, la rappresentazione mediata dalla mente, la grafica è la sua espressione più lirica, in cui si abbandona, concentrandosi sulla tecnica, a ciò che emerge dall’inconscio. Le sculture invece rappresentano la parte più gioiosa e giocosa di Debora, in cui si concede di tornare bambina e divertirsi con oggetti del bosco e colori.
Nell’arte ci è cresciuta: il padre, pittore a sua volta, aveva il torchio in casa e le ha insegnato le prime tecniche, che poi ha affinato a Venezia, alla Scuola Internazionale di Grafica e all’Atelier Aperto,sotto la guida di Nicola Sene. Negli anni ha proseguito in modo autonomo la ricerca su strumenti e supporti, realizzando grafiche sempre più sperimentali, tecniche all’avanguardia, difficilmente etichettabili, mettendo a punto un proprio percorso espressivo, originale e unico. Un percorso che cerca di condividere con alcuni studenti e con i carcerati di Regina Coeli, dove ha tenuto diversi corsi di pittura “inventandomi soluzioni per stampare senza usare gli strumenti di incisione, ovviamente proibiti” spiega. E ora aprendo al territorio il proprio studio, una piccola chiesa romanica, dove vorrebbe organizzare incontri e presentazioni, occasionali ma stimolanti. Del resto da questa terra sente di aver ricevuto molto: la serenità che trasmette, il silenzio, la possibilità di vivere al riparo dagli eccessi dell’esistenza cittadina per dedicarsi alla riflessione. E nutrirsi di stimoli e immagini.
Sabrina Carollo
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